Tony Gaudio: storia vera del primo premio Oscar italiano, nel 1937 (2024)

Notte degli Oscar e candidatura italiana: un connubio che porta naturalmente a ripensare alle vittorie del passato. Ma, nel ripercorrere questa storia, quante volte ci si ricorda del primo italiano che conquistò la statuetta? No, non parliamo di Vittorio De Sica o di Anna Magnani, bensì di Tony Gaudio, direttore della fotografia, nato a Cosenza nel 1883 ed emigrato nel 1906 negli Stati Uniti, che ottenne l’Oscar nel 1937 con il film Avorio nero di Mervyn LeRoy.

The Lost Legacy of Tony Gaudio, il film sul primo Oscar italiano

Una storia, quella di Tony Gaudio, poco nota fino a qualche anno fa, incredibile e dai toni epici e misteriosi, di per sé troppo cinematografica per non diventare un film: un’iniziativa di riscoperta di questo artista, attuata dalla Cineteca della Calabria, suscita l’interesse di un gruppo di giovani autori cosentini e della loro casa di produzione Open Fields (Arbëria, Matera 15/19), che propongono l’idea di un documentario, ottenendo il contributo della Calabria Film Commission e il sostegno dell’omologa istituzione piemontese.

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È l’idea di The Lost Legacy of Tony Gaudio, film appena completato e in procinto di approdare sugli schermi di festival (mentre, ad aprile, la città natale del protagonista ospiterà un evento, con la prima proiezione del trailer). È la storia del primo vincitore italiano di un Oscar, ma è anche la scoperta di un innovatore nel campo della fotografia; è, contemporaneamente, la storia della nascita del cinema, in Italia e negli Stati Uniti, la scoperta di tecniche e di sguardi; è la storia dell’emigrazione degli italiani; ed è anche un’indagine – scandita da una parte fiction – alla ricerca della statuetta conquistata quasi 90 anni fa e di cui si sono perse le tracce.

Quella che gli autori Fabrizio (anche produttore) e Alessandro Nucci (anche regista del film) hanno ripercorso nel documentario è la carriera di un direttore della fotografia divenuto quasi una star negli Usa – come si evidenzia anche nel doc – tanto che le riviste di settore si occupavano di lui e della sua vita. Gaetano Antonio (Tony) Gaudio inizia a lavorare a Cosenza nello studio fotografico di famiglia, “Foto Gaudio”, nel centro storico della città calabrese, insieme al fratello Eugenio (Eugene per gli americani), che lo seguirà negli Stati Uniti. Qui l’affermazione nel mondo del cinema, da New York a Hollywood, mettendo a frutto le conoscenze apprese nel settore (anche con una probabile tappa torinese, all’epoca capitale del cinema, pure a livello di innovazione tecnica).

Eugene fu pioniere nell’illuminazione subacquea, Tony nella creazione di un linguaggio basato sulla luce, sui chiaroscuri che disegnano caratteri ed emozioni, dando proprio uno sguardo differente alla narrazione cinematografica (oltre a quella tecnica, con, tra l’altro, una svolta epocale nell’uso del mirino della macchina da presa).

Due fratelli, una passione, 150 film, 5 nomination

Eugene fu tra i fondatori dell’American Society of Cinematographers, di cui Tony divenne successivamente il presidente. Dopo la morte del fratello, Tony continuò a lavorare, affiancando registi di fama internazionale, da Wyler a Curtiz, a Hawks, solo per citarne qualcuno, e ad illuminare la scena per divi come Bette Davis, Humphrey Bogart, Mary Pickford, Greta Garbo, John Barrymore, Edward G. Robinson, Errol Flynn (tra gli altri, ne La leggenda di Robin Hood). Sei le nomination conquistate (oltre che per Avorio Nero, anche per Gli angeli dell’inferno, Il conquistatore del Messico, Ombre Malesi,Corvetta K-225 e L’eterna armonia), in una carriera che include circa 150 film: opere in cui la luce non è un accessorio, ma per la prima volta diviene racconto.

Come rimarca anche il documentario, il suo sguardo ha precorso i tempi, tracciando vie che i direttori della fotografia di oggi ancora seguono. Da Princess nicotine, in cui si avvicina al mondo degli effetti speciali, all’idea della “precision lighting” (ovvero oscurare una parte del set, rendendo più dura la scena, più realistica) che si può vedere, ad esempio, in Private Detective 62, di Curtiz, con William Powell; ad Avorio Nero, il film dell’Oscar, con la luce delle candele e i giochi delle ombre o le immagini come ritratti; al volto di Bette Davis tagliato a metà dalla luce in The Old Maid, a rappresentare il dualismo del personaggio; ma soprattutto Ombre malesi, con lo straordinario piano sequenza iniziale e con le luci (e le ombre) della luna che raccontano.

Così, lo sbarco negli States dei due fratelli Gaudio si inserisce nello sviluppo di una nuova visione registica, di un nuovo linguaggio filmico che usa la fotografia e l’inquadratura (Tony Gaudio fu anche operatore e regista) per raccontare, sottolineare significati profondi delle pellicole, caratteristiche dei personaggi, sentimenti, creare connessioni o suscitare emozioni. Il tutto, innovando tecnicamente: e nella costruzione di nuovi strumenti, nel loro utilizzo, Tony, Eugene ed altri italiani furono fondamentali.

Un documentario, un ritorno a casa

Sognando una luce cinematografica che rendesse il senso di una luminosità naturale: un sogno oggi realizzato, ma che affonda le radici nella visionarietà di Tony Gaudio.

Il suo lavoro, dunque, si intreccia con lo sviluppo del grande cinema, in Italia ma soprattutto in America: e lo fa anche il documentario, ricostruendo il percorso di Gaudio come parte di uno sguardo su quello della Settima Arte. C’è l’epica di un percorso si diceva.

“È una storia sia epica che intima”, dichiara il regista. “Epica perché parla di un uomo che in pochissimo tempo raggiunge il successo, ma riesce anche a dare nuova vita al racconto per immagini. Prima si usava una fotografia patinata, mentre la fotografia realistica, che tanto ci piace oggi, con i chiaroscuri, fu proprio Gaudio uno dei primi a teorizzarla e poi ad applicarla, quando la tecnologia era agli antipodi da tutto questo” . C’è poi, aggiunge Alessandro Nucci, “l’epica del viaggio, di tutti gli italiani che hanno trovato spesso nella costa ovest una maggiore accoglienza, essendo un luogo in cui c’erano già spagnoli, messicani: gli italiani non erano così diversi, per usi, costumi, e furono bene accolti”.

Ma, evidenzia ancora, “oltre all’epica, c’è la dimensione intima”, che emerge nella storia di Gino Gaudio, il pronipote di Tony, centrale nel racconto del doc, “una persona che va alla ricerca delle proprie radici, oltre gli stereotipi, cercando la vera natura della propria italianità. L’incontro con Tony Gaudio è stata una motivazione in più, per scoprire le mie origini, anche geografiche”.

E ancora la cerimonia del 2022, con la dedica di una targa sulla facciata del palazzo che ospitava lo studio fotografico a Cosenza, “serve anche a suggellare il ritorno a casa del pronipote e dello stesso Tony”. Gino entra in quello studio ed è una forte emozione: “e questo non vuol dire essere nostalgici o fare retorica, ma dare un valore al passato, la giusta conoscenza”.

Il cast, i testimoni, lo stile del film

Lo stile del film è proprio quello di intrecciare il racconto del singolo sia con quello del cinema che dell’emigrazione italiana, calabrese in particolare, in America, attraverso le interviste – accostate alle immagini delle opere – ad alcuni docenti e studiosi americani, come Patrick Keating e Jonathan Kuntz, o personalità del cinema Usa, come il premio Oscar Richard Edlund, supervisor effetti speciali visivi di film come Star Wars, o M. David Mullen, direttore della fotografia de La fantastica signora Maisel; o ancora, al presidente della Cineteca della Calabria, Eugenio Attanasio, ai parenti di Gaudio, fino ad un altro direttore della fotografia calabrese, premio Oscar per Avatar, ovvero Mauro Fiore, che fa da trait d’union tra il passato e il presente, tra la Calabria e gli States, tra emigrazione e ritorno, tra la storia e l’attualità di un mestiere che non può prescindere dalle innovazioni dei grandi come Gaudio.

Una scelta già chiara fin dalla fase di scrittura e che poi, durante le riprese (effettuate, oltre che in Italia, anche negli Usa, per due settimane) si è ulteriormente rafforzata, con una “novità essenziale”, aggiunge Fabrizio Nucci, ovvero una ampia parte dedicata all’Asc, che ha consentito agli autori di entrare “nel tempio della direzione della fotografia, di addentrarci in quegli ambienti, un club esclusivo. Sul territorio abbiamo toccato con mano il fatto che ci fosse una consapevolezza profonda della figura di Tony Gaudio. Siamo rimasti piacevolmente colpiti e sorpresi di quanto sia conosciuto e studiato”.

La linea della narrazione, lo stile, dunque, si rafforza: il bianco e nero e il colore, le immagini d’epoca e l’animazione, il racconto degli intervistati e la realtà, la scoperta di nuovi aspetti nella storia di Tony, un personaggio misterioso anche per i numerosi nipoti che si incontrano dopo tanto tempo proprio in occasione delle riprese del film in America. “Questo documentario – spiega il regista – poneva fin dall’inizio una serie di problemi: pochissimo repertorio, nessuna foto privata, forse per un incendio che avrebbe distrutto tutti gli album, e meno di 100 foto pubbliche. Coinvolgere la famiglia era assolutamente necessario”.

Alla ricerca della statuetta perduta

“La riunione dei nipoti è nata un po’ da una nostra suggestione”, ma è poi Gino a riuscire a radunare in un unico giorno tutti i cugini: solo un paio di loro hanno conosciuto Tony – dopo il divorzio dalla prima moglie, che all’epoca suscitò scandalo, c’era stato un allontanamento e, dopo il ritiro dal lavoro, nel 1949, si era trasferito a San Francisco con la seconda moglie -, ed uno solo, come si racconta nel film, aveva visto anche la statuetta.

Proprio quella statuetta, che Tony stringe in mano nella foto della serata della vittoria, a fianco di star del calibro di Walt Disney, costituisce una linea importante del film, quella da cui si parte per introdurre lo spettatore nella storia dell’artista. Dopo la morte di Gaudio, infatti, dell’Oscar si perde ogni traccia e, dunque, la linea che si interseca tra il racconto emozionale dei nipoti e il percorso artistico, è quella dell’indagine: un immaginario investigatore privato (interpretato dall’attore Howard Ray), chiamato a ritrovare la statuetta, scandaglia i momenti della vita di Tony, alla ricerca di una soluzione al mistero, che aleggia per tutto il film, in una parte fiction che si integra perfettamente con le altre.

Ciò anche grazie sia al montaggio di Martina Nogarotto, che all’uso della musica: la colonna sonora originale, realizzata da Alessandro Papaianni, esalta l’epicità della storia, attraverso i toni sinfonici nelle parti documentaristiche, per poi cambiare in quelle di finzione, e chiarire così allo spettatore, fin da subito, i due registri. All’insegna di un racconto che riesce a far arrivare a tutti la complessità di un lavoro nei suoi aspetti spesso non conosciuti, oltre a far conoscere un artista, per troppi anni dimenticato, così come quella statuetta.

La vera legacy di Tony Gaudio

Ed è anche questa, in fondo, la “legacy”, l’eredità, che gli autori evidenziano: “I tempi – afferma il regista – sono cambiati, emigrare per farcela, come Gaudio e Fiore, oggi non è del tutto necessario, grazie ai mutamenti nell’audiovisivo.

Però non bisogna avere paura di partire: le loro storie dovrebbero essere di ispirazione per coloro che si sentono un po’ stretti nei loro spazi; Tony non era povero, ma è scattato qualcosa che ha spinto lui e il fratello ad andare in una terra in cui non erano stati prima”. E, poi, l’eredità dal punto di vista della tecnica: “questo lento viaggio verso il realismo, lo spettacolo non più fine a se stesso, ma una fotografia sempre più con una funzione narrativa propria. Se abbiamo grandi direttori che sono autori, lo dobbiamo a persone molto meno note, che hanno lavorato perché questa figura tecnica ottenesse un riconoscimento a livello autoriale”. “Sperimentare, provare cose nuove” come lascito ideale di Gaudio, gli fa eco Fabrizio.

E l’auspicio degli autori è proprio quello che tanti giovani – non a caso l’intento è quello di realizzare anche proiezioni nelle università – vedano questo doc e che, aggiunge Alessandro, “nasca in loro l’interesse per quel cinema, per film del passato che, dal punto di vista fotografico, possono essere moderni”.

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Author: Nathanial Hackett

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